Cookie Consent by Free Privacy Policy Generator website Nel bosco selvaggio del Sergente Romano

Nel bosco selvaggio del Sergente Romano

La folle e generosa epopea dei “briganti” del sud Italia echeggiò nei racconti intorno al fuoco, sottovoce, nelle case del meridione, per parecchi anni, dopo l’annessione al Piemonte del Regno delle Due Sicilie.

I contadini, sentendosi traditi dalle promesse mancate di Garibaldi, imbracciarono un fucile e si ribellarono al nuovo esercito, al quale avevano rifiutato di aderire parecchi ex soldati del Borbone. Questi ribelli furono chiamati briganti, e per sopravvivere e tentare un’opera sovversiva, si diedero alla macchia. Fra la Puglia e la Basilicata trovarono rifugio in luoghi solitari e impervi…

…e questo è uno di quelli…

…siamo nel Bosco delle Pianelle…

…oggi riserva naturale, situato sulle Murge tarantine, nel territorio fra Martina Franca e Crispiano.

Qui, alberi colossali, eredi secolari della foresta primigenia, furono i testimoni di quel furioso e tragico periodo storico in cui si tentò di “fare” una nuova nazione, in realtà macchiandone irrimediabilmente le origini e gli sviluppi futuri.

Nel bosco selvaggio del Sergente Romano

In questa gravina verde e impenetrabile echeggiano ancora le storie del Sergente Romano. Pasquale Domenico, figlio di semplici pastori, nel 1851 appena 17enne si arruolò nell’Esercito Borbonico, dove raggiunse il grado di sergente. A seguito dell’Unità d’Italia divenne il comandante del Comitato Clandestino Borbonico di Gioia del Colle. Passò subito all’azione, il 26 luglio 1861 attaccò il presidio militare di Alberobello, facendolo prigioniero assieme ai militari di Cellino. Dopo la decisione di fucilare i prigionieri, un fucile dei suoi fece cilecca, al grido di uno dei condannati: “Madonna del Carmine, aiutami!”. Così, il Romano risparmiò l’uomo ed altri 8 prigionieri. ma le cose non vanno sempre bene, una volta imboccata la via della violenza, così la banda Romano si macchiò di vari crimini, tra cui l’omicidio di un bambino di 8 anni, ucciso brutalmente da un brigante solo perché alla domanda se preferisse come re il Borbone o Vittorio Emanuele, rispose “ Vittorio Emanuele”.

Strinse alleanze con gli altri capi rivoltosi, come Carmine Crocco o il “Pizzichicchio”. A seguito dell’uccisione della sua fidanzata ad Alberobello, il sergente Romano assaltò la fattoria di Vito Angelini, ritenuto il delatore che aveva permesso la morte di Lauretta, e lo fece fucilare nell’aia.

Giuseppe Nicola Laveneziana detto “il figlio del re”, nato terzo di tredici fratelli a Carovigno il 1 febbraio 1832. Era il braccio destro del Sergente Romano e capo della colonna più importante della banda. Era il responsabile di grassazioni, sequestri di figli di massari e ricatti. Scriveva biglietti come questo: “Caro Don Pasquale Perez, che mi mandi 700 ducati nella masseria; a tuttora che mi abbisognano, io me li piglio. Non ho altro che dirvi. Sono vostro amico”.

Partendo da masseria Signora, oggi si può seguire un sentiero nel bosco, accanto allo strapiombo della gravina, che conduce ad una caverna che era uno dei rifugi del sergente e la sua banda.

Il percorso è lungo circa 3 km e occorre avere buone gambe e buone scarpe…

…tutto è esattamente come allora, nel silenzio profondo della vallata, fra gli sciami di zanzare e insetti fastidiosi.

Viene facile immaginare di sentire il rumore di una cavalcata…

…e incontrare proprio lui, in assetto da combattimento…

…in questa solitudine, non doveva essere un bel momento allora, per il malcapitato!

Una targa, davanti alla sua grotta, oggi ricorda lui e quei tempi cupi di sogni infranti…

…egli morì nelle campagne tra Gioia del Colle e Santeramo, durante un sanguinoso scontro a fuoco con la Guardia Nazionale il 5 gennaio 1863. Circondato da forze soverchianti, circa 200 uomini contro i suoi 20, dovette accettare battaglia e combattere. Prima di morire chiese di essere ucciso come un soldato ma fu invece ammazzato a sciabolate. Sul suo corpo, dopo la sua morte, furono ritrovate preghiere e il testo del seguente giuramento:

“Promettiamo e giuriamo di sempre difendere con l’effusione del sangue Iddio, il sommo pontefice Pio IX, Francesco II, re del regno delle Due Sicilie, ed il comandante della nostra colonna degnamente affidatagli e dipendere da qualunque suo ordine, sempre pel bene dei soprannominati articoli; così Iddio ci aiuterà e ci assisterà sempre a combattere contro i ribelli della santa Chiesa. Promettiamo e giuriamo ancora di difendere gli stendardi del nostro re Francesco II a tutto sangue, e con questo di farli scrupolosamente rispettare ed osservare da tutti quei comuni i quali sono subornati dal partito liberale. Promettiamo e giuriamo inoltre di non mai appartenere a qualsivoglia setta contro il voto unanimemente da noi giurato, anche con la pena della morte che da noi affermativamente si è stabilita. Promettiamo e giuriamo che durante il tempo della nostra dimora sotto il comando del prelodato nostro comandante distruggere il partito dei nostri contrari i quali hanno abbracciato le bandiere tricolorate sempre abbattendole con quel zelo ed attaccamento che l’umanità dell’intiera nostra colonna ha sopra espresso, come abbiamo dimostrato e dimostreremo tuttavia sempre con le armi alla mano, e star pronto sempre a qualunque difesa per il legittimo nostro re Francesco II. Promettiamo e giuriamo di non appartenere giammai per essere ammesso ad altre nostre colonne del nostro partito medesimo, sempre senza il permesso dell’anzidetto nostro comandante per effettuarsi un tal passaggio. Il presente atto di giuramento si è da noi stabilito volontariamente a conoscenza dell’intera nostra colonna tutta e per vedersi più abbattuta la nostra santa Chiesa cattolica romana, della difesa del sommo pontefice e del legittimo nostro re. Così abbracciare tosto qualunque morte per quanto sopra si è stabilito col presente atto di giuramento”.

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