Cookie Consent by Free Privacy Policy Generator website San Marzano di San Giuseppe, anima arbereshe

San Marzano di San Giuseppe, anima arbereshe

C’è una piccola città sulle Murge tarantine che ha una storia che è un piccolo grande romanzo: San Marzano di San Giuseppe. Nacque verso la fine del 1400, fondata da esuli albanesi, in fuga dalla loro patria devastata dai turchi. Erano un popolo di fede ortodossa, e praticavano il loro culto seguendo le antiche preghiere in greco. Nella lama vicino la futura San Marzano, fondarono con un villaggio rupestre la loro prima cittadina, scavando nella roccia il loro santuario, affrescando i Santi e la Madonna delle Grazie, che fortunatamente sono giunti fino a noi…

san marzano di san giuseppe

Ma prima di entrare in questo borgo affascinante, nelle cui vie del centro, se si fa attenzione, si ascolta la gente parlare nel loro dialetto, che è la vera lingua albanese di 500 anni fa, visto che per tutti quei secoli l’Albania fu “turchizzata” nei costumi e nella parlata, raccontiamo il prologo, di San Marzano. Ciò che accadde dall’altra sponda, che produsse poi i suoi effetti sin qui…

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San Marzano di San Giuseppe, comignolo arbereshe.

Partiamo dall’inizio del 1400. Da un nome: Giorgio Castriota Skanderbeg. Per mare era stato portato via bambino, dai turchi, strappato al padre Giovanni, patriota che difendeva, rialzandosi dopo aver morso la polvere, l’Albania contro un nemico troppo più forte. Giorgio fu allevato, cresciuto e istruito da turco. Divenne un grande generale dell’impero. Tuttavia, un giorno, divenuto uomo, e incontrata gente della sua nazione, fece un tuffo nella sua mente. In un mare dal calore intimo, di colpo ricordò le sue origini, e tutto gli fu chiaro: il suo posto nel mondo e le sfrenate ambizioni turche; essi volevano dominare il mondo, e in modo abietto dissimulavano, ingannavano, tramavano nell’ombra. La decisione che prese, in forma di fulmine nella notte, squarciò con un lampo la sua mente. Ribellione. Spada. Lotta. Con un falso documento autorizzato dal sultano Murad, che lo chiamava “Figlio mio”, entrò nella sua città, Croia, e ne fece uscire la vecchia guarnigione. Dopo di che, fece abbassare la bandiera turca ed issò quella rossa con l’aquila a due teste. Da quel momento, per 25 anni, i turchi gli mandarono contro le più grosse armate, i cannoni e le armi più micidiali, i predoni più spietati, provenienti da ogni angolo dell’impero. Ogni anno, per domare la ribellione. Ogni volta dovevano fare dietro front, sconfitti da una razza di testarde capre di montagna, infinitamente inferiori di numero, ma risoluti ad essere i padroni della propria terra e il proprio destino. Così Giorgio riabbracciò la sua gente, con poche e calde parole: “Non fui io a portarvi la libertà, perché l’ho trovata qui, in mezzo a voi”. Murad si ammalò per la rabbia, e morì a 49 anni senza essere riuscito neanche a tornare in patria. Ma suo figlio Maometto II, il tremendo conquistatore di Costantinopoli, partì a sua volta per ridurre all’obbedienza gli albanesi. Il suo progetto, conquistata l’Albania, era sbarcare dall’altra sponda e arrivare fino a Roma, dove avrebbe impiccato il papa e fatto erigere ovunque moschee per Allah. Era alla testa di un esercito immenso, il più potente e moderno di quel tempo. Ogni primavera le truppe marciavano sull’Albania, ed in autunno, dopo essere state tenute in scacco, erano costrette a tornarsene scornate a Istanbul. Gli albanesi vissero un dramma terribile e grandioso. I villaggi furono devastati, i raccolti razziati, le donne e i bambini deportati, le città distrutte e incendiate. Eppure non si arresero. La guerra continuò. Il panico regnava in tutta la nazione, e generava mostri alla luce del sole. Incubi che toglievano il respiro alle persone. Con gli occhi rossi di pianto, la gente si incontrava e si salutava ogni giorno come se fosse l’ultimo giorno. Nei pressi di Petrela qualcuno vide due eserciti sfolgoranti scontrarsi nei cieli e mandare lapilli tutto intorno, in un’eco assordante di tuoni e cannoni. Una notte, nel cielo di Croia qualcuno vide agghiaccianti chimere con occhi di brace, attorno al castello, sputare fiamme nell’atto di risucchiarlo. E poi, in pieno giorno, si videro levarsi tre lune da oriente, come tre fiamme dell’inferno. Piovevano pietre dal cielo. Nei fiumi l’acqua diventava rossa. E a Tornac un neonato gridò terrorizzato nella culla: “Arriva il turco!”. Le battaglie rimbombavano di duelli omerici. I turchi si lamentavano che su quelle montagne non riuscivano a salire neanche i corvi, come quei diavoli di albanesi.

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Il sultano corrompeva molti generali di Skanderbeg, nell’intento di indebolirlo e avere più speranze di successo. Il tradimento più doloroso fu quello di Mosè di Dibra, quasi un fratello per Skanderbeg, che promise al sultano l’Albania. Ma nonostante guidasse un grosso esercito, fu sconfitto anche lui, il suo esercito distrutto. Per la vergogna, non tornò a Istanbul, ma con un cappio al collo in ginocchio da Skanderbeg, supplicando perdono. Il Castriota, come il padre del figliol prodigo nella parabola evangelica, lo baciò sulla fronte e gli diede di nuovo il suo posto nell’esercito, proibendo a chiunque di ricordare più l’episodio del suo tradimento. Il papa pregava per Giorgio, lo nominò “Atleta di Cristo”, e speranza di tutta l’Europa cristiana. In battaglia si lanciava così velocemente che chi lo vedeva giurava lui volasse. Dove non arrivava la sua forza, sempre inferiore numericamente, arrivava la sua furbizia. Come quando nelle notti in cui il turco dormiva nell’accampamento, legava delle torce sulle corna di un branco di capre, e insieme a esse si gettava a perdifiato giù per i fianchi della montagna: pareva un esercito intero, e sconvolgeva nel sangue l’intontimento dei nemici. Poi continuava a reclutare gente dalle campagne, facendo a braccio di ferro con ognuno di essi, e spingendo un contadino a diventare signore della propria terra. Maometto II continuava a subire rovesci, malgrado lentamente stringesse il suo cerchio di fuoco intorno a Croia. Dopo l’ennesima vittoria, un giorno Skanderbeg fu colto da febbre e dovette mettersi a letto. L’ira del sultano però era divampata a tal punto da armare un’altra spedizione in pieno inverno. Appena giunta la notizia, l’eroe fece per alzarsi dal letto per montare a cavallo, ma ormai roso dalle febbri non riuscì a muoversi. La sua guardia pretoriana andò in battaglia stavolta senza il suo comandante. E generò ugualmente terrore fra i turchi, che pensando arrivasse Skanderbeg si diedero alla fuga, e finirono per essere sbaragliati dai montanari che si appostavano fra le gole. Quando tornarono al suo letto per riferirgli della splendida vittoria, Giorgio già rantolava. I medici gli dissero che non aveva più speranza. Lui chiamò tutti i suoi generali intorno a sé, li salutò e li incitò a continuare la guerra. Ringraziò, e spirò a 63 anni il 17 gennaio 1468. Quando lo seppe, Maometto II esclamò: “Questa terra non vedrà mai più sorgere un simile leone! Adesso Asia ed Europa sono mie! Guai per i cristiani, che hanno perso lo scudo e la spada!”, e ordinò di intensificare le operazioni. La guerra durò altri undici anni, le poche risorse finivano, i guerrieri morivano, i più si arrendevano. Il cerchio intorno a Croia stava per chiudersi. Il figlio di Skanderbeg, ancora ragazzo, fuggì insieme alla madre a Napoli: qui li ricevette il re Ferrante, che accolse il piccolo Giovanni come suo figlio, in debito per l’aiuto che suo padre gli aveva dato in precedenza, quando rischiò di perdere il trono e Giorgio venne in Italia con i suoi guerrieri per ridargli il regno. Le genti che lo videro guidare quei cavalieri che parevano volare, non lo dimenticarono mai, e sempre ne parlarono con stupore. Il re Ferrante in segno di grande riconoscenza, diede a Skanderbeg e alla sua gente diverse terre, sparse fra la Puglia e la Calabria.

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Monumento a Skanderbeg, centro storico di San Marzano.

Fu Demetrio Capuzzimati (il cui cognome è stato italianizzato, in quanto letteralmente in lingua albanese significa “scarpa grande”), capitano della famiglia Castriota Skanderbeg, a erigere il grande palazzo che si erge sul punto più alto del paese. Fece convergere a San Marzano un gran numero di profughi, che dissodarono le terre e crearono una grande comunità.

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San Marzano di San Giuseppe, Palazzo Capuzzimati

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San Marzano di San Giuseppe, Palazzo Capuzzimati, interni.

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San Marzano di San Giuseppe, Palazzo Capuzzimati, particolare dei nomi dei cavalli.

Come detto il villaggio rupestre fu il primo insediamento del paese. E’ stato in parte rimaneggiato, però conserva ancora rilevanti tracce di storia, che interessano vari aspetti…

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Villaggio rupestre, affresco della Madonna delle Grazie

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San Marzano di San Giuseppe. Villaggio rupestre, particolari.

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Villaggio rupestre, San Giorgio che uccide il drago.

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Villaggio rupestre, particolari.

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San Marzano di San Giuseppe. Villaggio rupestre, particolari.

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San Marzano di San Giuseppe. Villaggio rupestre, particolari.

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San Marzano di San Giuseppe. Villaggio rupestre, cimitero medievale.

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San Marzano di San Giuseppe. Villaggio rupestre, strada carraia.

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San Marzano di San Giuseppe. Villaggio rupestre, il nuovo santuario.

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Il grande campanile della chiesa matrice ci accoglie nel centro storico…

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San Marzano di San Giuseppe. Chiesa matrice, interni.

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San Marzano di San Giuseppe. Chiesa matrice, interni.

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Chiesa matrice, la statua di San Giuseppe portata in processione durante la festa.

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“Casa rossa” è un altro scorcio caratteristico di San Marzano…

casa rossa a san marzano

…un’architettura che conserva il caratteristico comignolo arbereshe

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A San Marzano di San Giuseppe, si perpetua ancora la cerimonia delle mattre, risalente al 1866, allorquando San Giuseppe in seguito ad un violento nubifragio che devastò vigneti, frutteti e uliveti venne proclamato protettore del paese, è preannunciata dalla “processione delle fascine” destinate ad essere arse sino all’alba da un fuoco purificatore.

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Puntualmente ogni anno, nella serata del 18 marzo, migliaia di persone scortano a piedi per diversi chilometri una cinquantina di carretti stracolmi di fastelli e di tralci di potatura di vite trainati da cavalli bardati a festa e pronti ad inginocchiarsi dinanzi al simulacro del santo. La legna che affannosamente trascinano è destinata ad alimentare il grande fuoco ossia il falò monumentale per certi versi simile a quello della focara accesa a Novoli (in provincia di Lecce) in onore di Sant’Antonio Abate.

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San Marzano di San Giuseppe, la processione della legna.

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San Marzano di San Giuseppe. Costumi arbereshe

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San Marzano di San Giuseppe. Costumi arbereshe

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Le Tavole di San Giuseppe

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Questo territorio fu interessato durante il periodo post-unitario della guerra che si scatenò fra lo Stato e le bande dei “briganti”, sostenuti da un gran numero di gente contraria all’unità d’Italia. Uno dei capi dei briganti, nativo di San Marzano, fu Cosimo Mazzeo, detto il “Pizzichicchio”, che diede gran filo da torcere ai piemontesi, fino ad arrendersi al loro numero soverchiante, ed essere condannato a morte.

pizzichicchio1

Il fenomeno del brigantaggio fu alimentato anche dalla natura del territorio circostante, costellato da boschi, lande desolate, le murge tarantine, quasi del tutto disabitate. La figura del brigante finì con l’assumere quella dell’eroe, agli occhi della gente, ma aldilà delle questioni storiche, ancora tutte da studiare e chiarire, questa storia nulla toglie al fascino di una terra secolare, da sempre crocevia di genti e umanità, che conserva ancora oggi, nonostante tutto il peso della Storia, la sua genuinità.

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