Cookie Consent by Free Privacy Policy Generator website L’Acquedotto Romano di Brindisi

L’Acquedotto Romano di Brindisi

I Romani, grandi costruttori, realizzarono pure a Brindisi, nel I secolo d.C., sotto l’imperatore Claudio (10 a. C. circa-54 d. C.), un acquedotto che portava acqua alla città dalla zona acquifera di Pozzo di Vito (a metà strada tra Brindisi e San Vito dei Normanni, a Nord della strada statale 16, l’Adriatica). Qui fu costruita una grande vasca cilindrica, nella quale confluivano

– per mezzo di ben costruiti cunicoli filtranti – le acque degli altri pozzi dei dintorni; lungo la strada per giungere in città (dodici chilometri), l’acquedotto romano raccoglieva le acque di altri pozzi appositamente scavati. Rappresenta una delle più interessanti opere dell’ingegneria idraulica romana di tutto il Salento, una meraviglia dell’archeologia locale che purtroppo solo in pochi conoscono.

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E’ il grande bacino di raccolta delle acque di falda che alimentava il sistema di approvvigionamento idrico alla città di Brindisi in epoca romana (I – II secolo d.C.), situato in località Pozzo di Vito a circa 9 km a ovest del centro abitato, nei pressi dell’ex base Usaf e a ridosso del canale Lapani (nome originale di quello che, per un errore di trascrizione, oggi chiamiamo Apani). Nella vasca confluivano le acque dei pozzi scavati nei dintorni attraverso quattro cunicoli (specus) sotterranei, un quinto cunicolo, poco più grande degli altri, portava l’acqua alla città seguendo la naturale pendenza del terreno in un percorso lungo circa 12 km che da contrada Marmorelle giungeva nei pressi delle masserie Restinco, Cillarese, Scalella per poi svoltare e seguire parallelamente la via Appia e giungere alle vasche limarie di Porta Mesagne, dove l’acqua veniva purificata per decantazione dalle particelle sospese, e quindi distribuita alle fontane e alle cisterne della città romana. La foggia di Pozzo di Vito è un’ampia vasca scoperta a forma circolare del diametro di ben sette metri e mezzo, profonda poco più di sei metri, che attualmente versa in uno stato di pessima conservazione, colma di acqua stagnante e circondata da vegetazione spontanea che, per spinta delle radici, sta inesorabilmente danneggiando le pareti laterali di contenimento. Un muretto più recente circonda il bacino evitando l’ingresso casuale di animali e persone.

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La vasca fu scoperta nel 1864 durante la valutazione del territorio provinciale della Terra d’Otranto necessaria a costruire pozzi artesiani utili all’irrigazione dei campi, incarico affidato all’idrologo francese Aristide Mauget. Un interessante rilievo del bacino fu redatto in data 22 marzo 1888 su un rotolo in cartoncino dove venne rappresentata la planimetria e la sezione in scala 1:100 della vasca – all’epoca pressoché integra – insieme ai prospetti in scala 1:20 dei cinque specus. Negli anni ’70 studi più approfonditi furono condotti dal prof. Cesare Marangio, docente universitario e autorevole conoscitore della Brindisi Romana, che nel suo lavoro ha confermato la tipologia della muratura laterale di rivestimento del pozzo, avente uno spessore di 80 cm. In particolare partendo dalla base e per un’altezza 1,10 metri, la muratura fu realizzata in “opera quadrata” (opus quadratum), quindi una lista di mattoni da 4 cm la divide dalla parte superiore in “opera reticolata” (opus reticulatum, tecnica edilizia che dava forma ad un reticolo diagonale in rilievo sulla parete). Il livello dell’acqua misurava poco più di 3 metri dal fondo, la stessa quota rilevata nel 1888.

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Le condotte erano – e speriamo lo siano ancora – caratterizzate dalla volta ad arco rialzato ed erano larghe circa 60 cm, lo specus ad est che portava l’acqua alla città era alto poco più di due metri e si poggiava sulla platea arenaria, gli altri quattro condotti misuravano un’altezza di circa 1,50 metri e poggiavano su una base di tufi, rialzati di circa 30 cm dal fondo. Anche queste gallerie erano rivestite con opus quadratum ereticulatum e risultavano ingombre da detriti già dopo 2-5 metri dall’ingresso; alcuni elementi specifici permisero agli studiosi di ipotizzare interventi di risistemazione di uno di questi corridoi sotterranei nel corso del IV sec. d.C. Il toponimo del luogo risalirebbe, secondo un racconto popolare che gli anziani contadini della zona ricordano bene, alla scomparsa nel pozzo di un certo Vito e del suo cavallo, caduti accidentalmente con tutto il calesse e mai più ritrovati.

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Sopra, i “pozzi” che accompagnavano il percorso fino in città, e sotto esempio dello specus, oggi musealizzato.

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Prima di entrare in città ed essere utilizzata per usi potabili, l’acqua veniva depositata nei serbatoi costituiti dalle grandi “vasche limarie”, delle quali le parti rimaste – ora restaurate – si trovano a lato del bastione di Porta Mesagne, dove restava per qualche tempo per far precipitare sul fondo il fango (il “limo”).

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La magnifica volta del grande serbatoio fu demolita, e le vasche furono interrate, allorché si rese necessario – nel 1530 – costruire le nuova mura a difesa della città, cui provvide il generale Ferdinando di Alarçon, per conto di Carlo V d’Asburgo. Le vasche furono scoperte nel 1886, in occasione dello sterro operato nel terrapieno per l’apertura di una strada. Gli imponenti resti delle vasche limarie, o piscine limarie, presenti su via Cristoforo Colombo, sul lato destro di Porta Mesagne per chi entra, erano parte integrante dell’acquedotto di epoca romana.

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Attraverso un condotto sotterraneo che seguiva la naturale pendenza del terreno, qui confluivano le acque potabili raccolte nel bacino di Pozzo di Vito, sito a circa 12 km a ovest della città. Le vasche potrebbero essere state realizzate già in epoca tardo repubblicana e collocate, secondo la regola e la tradizione del tempo, a ridosso delle mura della città romana. 

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Le piscine furono parzialmente demolite e coperte da un terrapieno nel 1530 durante la costruzione della nuova cinta muraria voluta da Carlo V d’Asburgo. Vennero portate alla luce quando si pensò di abbattere il tratto di cortina muraria che da porta Mesagne andava verso il bastione di San Giorgio; dal 1884, in occasione della costruzione di una nuova strada (l’odierna via Cristoforo Colombo), si susseguirono una serie di controversie che portarono poi alla rimozione del terrapieno e allo studio dell’importante monumento. L’intera costruzione, unico esempio di Castellum Aquae di tutto il Salento, conteneva una serie di camere successive e comunicanti che servivano a purificare – per decantazione – le acque dalle sabbie e dal limo in sospensione trasportato lungo tutto il tragitto del condotto romano (specus), prima di essere ripartite alle diverse fontane e cisterne della città: dalla vasca di prima confluenza l’acqua veniva fatta defluire alle cisterne successive, in maniera da permettere la sedimentazione delle impurità sul fondo.

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La tipologia delle piscine limarie è simile ad altri sistemi di idrici di raccolta, purificazione e distribuzione delle acque potabili presenti in altre zone d’Italia (Ostia, Propaganda Fide, Falerio, Herdonia ecc.). Quello che rimane dell’intera struttura, orientata secondo un asse nord-ovest sud-est, si sviluppa su una lunghezza di 51 metri e una larghezza di 11,20 metri; era composta da almeno tre vasche successive e comunicanti, coperte da una volta a botte che si impostava a circa 4,90 metri dalla base. Presumibilmente le coperture furono demolite perché superavano in altezza le nuove mura ed anche per far posto al terrapieno.

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Le pareti e le volte sono in opus caementicium e in opus letericium, il muro interno trasversale in opus reticulatum, mentre il pavimento è in lastre di terracotta. I muri interni e i piloni laterizi sono intonacati con sabbia, calce e frammenti di tegole per uno strato di circa 2 cm. La parete perimetrale occidentale a ridosso della cinta muraria, alta poco più di 5 metri, è pressoché lineare, mentre quella opposta (lungo via C.Colombo) presenta due ripiegature verso l’interno a forma quadrangolare, una per ogni ambiente. Questo lato è in buona parte distrutto e si eleva mediamente per circa 1,7 m. Entrambe le pareti perimetrali hanno uno spessore di circa 80 cm. La vasca maggiore, quella più a sud, è lunga 29,28 e larga 8,10 metri, era divisa in due strette navate dai sei pilastri quadrangolari – lato di 1,20 m. – allineati al centro della vasca sull’asse del lato maggiore, che lasciano ipotizzare una preesistente copertura con doppia volta a botte, poggiante da una parte sui muri perimetrali e dall’altra sui pilastri centrali. La vasca settentrionale misura internamente 16,18 m di lunghezza e 8,55 di larghezza. La canaletta sulla pavimentazione di entrambe le vasche ed il condotto presente all’angolo più a nord della vasca grande, verso cui era diretta la pendenza, servivano a smaltire le acque ed il limo depositato prima e durante dei lavori di pulizia delle cisterne. La canaletta incassata sul pavimento ha una sezione a U (18 x 16 cm) e presenta una diramazione ad Y su entrambe le vasche; il condotto rettangolare, largo 80 cm, aveva copertura alla cappuccina e s’inoltra diagonalmente nella piscina per circa 4 metri; l’ingresso (oggi occluso) è alla base del muro perimetrale ad ovest. Quasi in corrispondenza di questo cunicolo, ad un’altezza di circa 1,98 metri dal pavimento, vi è un foro (otturato con malta) del diametro di circa 24 cm, che probabilmente serviva a regolare del livello idrico (troppo pieno). In passato questa apertura fu creduta come ingresso del canale di adduzione delle acque.

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Sull’angolo del muro di fronte è presente un altro arco – anch’esso chiuso – che potrebbe essere stato utilizzato come ulteriore scarico o comunque come apertura per una condotta idrica. Lungo la base dei muri perimetrali vi sono dei cordoli che servivano ed eludere le infiltrazioni e le perdite d’acqua, ricoperti, nella vasca più grande, dalle lastre della pavimentazione. Questi muri sono realizzati con blocchetti irregolari in calcare che si alternano a fasce orizzontali di laterizi. Il muro trasversale che divide le due cisterne è aperto e permetteva il passaggio dell’acqua tra i due ambienti, la larghezza originale dell’apertura era di 1,40 m; in realtà entrambe le camere hanno un proprio muro e le tecniche costruttive differenti lasciano intendere che le vasche non fanno parte di un’unica costruzione ma sono state realizzate in tempi diversi, forse come ampliamento del castellum dovuto ad una maggiore richiesta e/o flusso di acqua. Anche tra la vasca minore e quella successiva a nord, quasi del tutto distrutta, vi era un muro divisorio con un’apertura di 80 cm di larghezza posta a 60 cm dal pavimento. Di questa terza vasca resta solamente il muro dello spessore di 60 cm che si posa sulla parete a nord della vasca centrale. La pendenza di entrambe le vasche è verso sud, ovvero in direzione della cisterna più grande. Non vi sono riferimenti sul sistema di ingresso e di erogazione dell’acqua, ma si suppone che la condotta di immissione entrasse nella vasca a nord – quella più vicina a Porta Mesagne, non più esistente – attraverso la parte alta del muro, di cui non rimangono tracce. Interessanti studi, rilievi e relazioni furono redatte negli anni tra la fine dell’800 e i primi del ‘900 a cura di ispettori e sovrintendenti dei Beni Archeologici, principalmente da Giovanni Tarantini e Giuseppe Nervegna, che si adoperarono per salvaguardarne l’integrità. All’epoca le strutture risultavano quasi completamente coperte dal terrapieno delle fortificazioni cinquecentesche, ma già si distinguevano le due vasche principali ed il muro trasversale di separazione con l’apertura di comunicazione tra le due vasche, oltre alla porzione della copertura a botte. In precedenza erano a vista solo alcuni tratti e pertanto furono formulate altre ipotesi sulla possibile funzione della struttura: Andrea Pigonati la considerò un bagno pubblico mentre François Lenormant credette fossero cubicoli sepolcrali. Si è rischiato persino la demolizione totale e parziale delle piscine, in particolare del muro orientale definito dal sindaco dell’epoca come “muricciolo di pietre informi”, che ostacolava l’allineamento della costruenda strada. Da una parte Giovanni Tarantini e Giuseppe Nervegna a sostenere l’importanza del monumento di epoca romana, dall’altra l’amministrazione comunale decisa in ogni modo nel suo intento distruttivo, sostenuta dall’opinione del Genio Civile. La querelle vide in più occasioni l’intervento del Ministero dell’Istruzione Pubblica che si espresse per la salvaguardia delle piscine. Una volta completata la rimozione del terrapieno, avvenuta nel 1892, nella vasca principale furono scoperti i sei pilastri quadrangolari e nel 1895 si dispose di creare un condotto sul pavimento originale, sottoposto rispetto il piano stradale, per permettere il deflusso delle acque piovane che ristagnavano e causavano “esalazioni nocive”.

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Nel 1913, durante l’ampliamento dell’officina elettrica sita oltre la cinta muraria (oggi via Bastioni S.Giorgio, dove insistono gli ex locali dell’agenzia Enel), e la rimozione del terreno di riempimento presente tra le fortificazioni e le vasche, vennero alla luce i quattro grossi pilastri alti 4 metri, addossati sul lato esterno alla parete della vasca maggiore, oggi non più visibili. Questi piloni servivano a consolidare la struttura come contrafforti di contenimento della pressione dell’acqua sui muri delle vasche. Si suppone pertanto che anche i muri sul lato opposto venissero sostenuti da altrettanti piedritti con funzioni di sostegno della spinta idrostatica. Gli altri elementi oggi non più visibili sono i tre contrafforti posti all’esterno del muro corto a sud della vasca maggiore che erano stati indicati nei rilievi del 1892. Per lungo tempo e sino alla fine degli anni ’80 le vasche limarie, ed alcuni ambienti dell’attiguo bastione, furono occupati dal pub “La Tortuga”, un locale poi demolito durante il restauro delle vasche.

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Un altro serbatoio, comunicante con la rete di quell’antico acquedotto, e cunicoli filtranti furono ritrovati sotto il piano stradale della via Pozzo Traiano, prima della salita S. Dionisio: l’imperatore romano (52-112 d. C.) del quale porta il nome, che si trovava a Brindisi con l’esercito in attesa del tempo favorevole per imbarcarsi per le sue campagne orientali contro Armeni e Parti, ne avrebbe ordinato la costruzione per provvedere di acqua i soldati e i cavalli, evidentemente acquartierati in quell’area, nelle vicinanze del porto. Più che un pozzo sembra un grande deposito (conserva) d’acqua, collegato all’acquedotto che alimentava le fontane della città; sino alla fine dell’800 era detto dai brindisini il “pozzo della città”. Altra acqua giungeva in città dal fiume di Celano, chiamato nell’uso popolare Cerano, che per buona parte scorreva “celato” sottoterra. Nell’attuale porto medio (considerato esterno prima della costruzione del Castello Alfonsino), defluivano le acque di due fiumi, grande e piccolo, una volta denominati “Delta” e “Luciana”. Sullo stesso lato, in località Apollinare (da un tempio dedicato ad Apollo), furono ritrovati resti di terme romane, alimentate evidentemente dalla grande disponibilità di acqua dolce. Altri avanzi di antiche terme furono ritrovati nel 1925 in piazza Vittoria, durante i lavori per le fondazioni del palazzo delle Poste, e in piazza Crispi nei pressi del bastione S. Giorgio. Sulla sponda opposta del porto medio vi erano le “fontanelle”, sorgenti di acque potabili, celebrate probabilmente da Virgilio nell’Eneide, e – più vicina al canale – la sorgente chiamata dai brindisini “abisso”, ma anche pozzo di Plinio, perché fu studiata da Plinio Caio Secondo il vecchio (23-79 d. C.), che scrisse nella sua monumentale “Storia Naturale”: ‘Brundusii in portu fons incorruptas praestat aquas navigantibus‘. Una volta c’erano due colli all’imbocco dell’attuale canale Pigonati (il più alto era quello posto sul lato del Casale), che furono spianati da Cesare in occasione della guerra civile con Pompeo, per restringere l’accesso al porto interno: da questi e dagli altri colli sgorgavano acque abbondanti e dolcissime. La disponibilità di acqua rendeva il terreno agricolo molto fertile, tant’è che Strabone scrisse: ‘Fertilior ager Brundusinus, quam Tarantinus‘. Le colline che si affacciano sul porto interno (promontorio di S. Andrea, dove sono ora le chiese di S. Paolo e S. Teresa, il sito delle colonne e, al lato opposto, S. Maria del Monte) erano piene di giardini, di uliveti e vigneti. Una fonte di acqua salata, che nel Medioevo ha dato il nome al rione (pitagio) detto della Fontana Salsa, si trovava tra il Castello grande e S. Paolo. Molta acqua dolce finiva in mare, tra cui quella condotta dai canali Cillarese e Patri, che sboccano nelle insenature del porto interno: il primo nel più lungo seno di ponente, dove sono il termine dell’antica via Appia e il Castello grande; il secondo nel seno di levante.

Testo di Giovanni Membola e Roberto Piliego, tratto dal sito Brindisiweb.it

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