Cookie Consent by Free Privacy Policy Generator website “Il Folle”, il nuovo romanzo di Alessandro Romano

“Il Folle”, il nuovo romanzo di Alessandro Romano

Un uomo fuggito dalla grande città, per vivere solitario nelle campagne laziali, incontra casualmente una donna che riesce a trascinarlo con sé, convincendolo, dopo una vacanza insieme sul litorale romano, a tornare a Roma.

L’uomo però custodiva un segreto che è stato scoperto da una banda di ignoti, che lo aggrediscono e lo gettano a vivere nella paura. La città sembra respingere l’uomo solitario, riesce a fare amicizia solo con un gruppo di barboni, ed uno di essi lo accompagna in un viaggio allucinante nei meandri della città, rischiando di perdersi, ad un passo dal trovare la proprio via, nella vita (PlaceBook Publishing, luglio 2020. Disponibile su Amazon).

Non c’è scrittura se non c’è un problema. Ne sono convinta. Le persone hanno dimenticato il piacere dei testi segreti, di una scrittura privata che non trova compimento nella pubblicazione e nel commercio letterario. Perché scrivere vuol dire sopratutto stare da soli, tacere, mettersi in ascolto. “Intra” come diciamo noialtri, noi del sud sonnolento, “dentro”. Il rischio è scoprire che quando siamo soli siamo meno soli. E in questa periferia del mondo, me ne rendo conto, non è una cosa facile da capire. In questo continuo figliare arrancando nel precariato umano, uno ha voglia di cuccia umana e calda dove aggiustarsi il sangue. È difficile, stando così le cose, trovare chi, come te, si mette a scrivere, sottraendo ore al sonno, ore alla fame, ad anni troppo frettolosi, un tempo per andare ad aggiungere una pagina a “Il Folle”. Non deve essere facile, con una simile attitudine alla solitudine, farsi capire dal mondo, perché le cose che fai dici scrivi e senti ti rendono un numero dispari. Uno, solo. Ho letto le tue pagine con l’impressione di chi sa bene di essere il destinatario di una copia inusuale, distribuita a pochi lettori. Non so cosa ho fatto per rientrare nella tua scelta ma la cosa mi ha portato indietro di colpo, Alessandro, agli anni di mezzo, quando scrivevo storie con un’urgenza passionale che mi spezzava il sonno e mi toglieva ogni altra necessità dalle viscere. Come un idiota, scrivevo, per anni non è stato possibile affrancarsi di quelle pagine fotocopiate a casaccio e distribuite a due paia di mani lontane, i miei lettori fraterni e consanguinei coi quali in quel modo credevo di stringere un patto di sangue per la vita. Perché a volte, per via delle parole, ho creduto di vivere un allunaggio. E non è così? Tu mi sei testimone, è così. Devi conoscerlo bene, Alessandro, quel terreno passionale di cui parlo e che, in qualche strano modo, ti salva la vita, in tutti i modi in cui una vita può essere salvata. La scrittura mantiene sempre la parola data, è diversa da tutto, non è come la musica, non è come la pittura o il resto, è qualcosa che prima non c’era e adesso c’è, sono le pagine della tua storia venuta da chissà dove e chissà perché, da qualche parte dentro di te. Allora, vedendo quelle pagine attribuirsi un corpo cartaceo ti sarai stupito come davanti a un feticcio divino, come un bambino piccolo che si meraviglia e rallenta la sua corsa. Per fortuna ti è capitato, di voler scrivere di Alex Thoreau, Marco e Francesca, la Grande Città, Donna, Roberto Anastasi, il Folle, il Solitario, l’Unificatore, il vicino, Patrizia, Lisa Del Mondo e via elencando. Quando una storia preme per essere scritta chiede di essere cristallizzata insieme ai suoi personaggi e al narratore stesso, perché una storia è sempre una dichiarazione d’amore. Un grido di appartenenza alla vita, forte come un luogo di provenienza. E tu lo hai descritto molto bene: “Sedetti al tavolino, all’interno del camper, per scrivere un pò, e come sempre mi accade volarono via un paio d’ore senza che me ne accorgessi, e senza neanche scrivere molto: la vista di un foglio bianco ed il contatto di una penna mi regalano da sempre pause estatiche spesso clamorosamente prolungate, fonte di una benefica leggerezza di tutto il mio essere. Il piacere che ne ricavo è quasi sempre superiore a qualunque cosa poi io scriva successivamente”. Mi viene in mente una frase di Marguerite Duras: “Scrivere era l’unica cosa che popolava la mia vita e che la incantava. L’ho fatto. La scrittura non mi ha mai abbandonato” (Parigi, 1993). Tre anni più tardi, quando ritrovai questa frase nel libro “Scrivere” (M.Duras, Feltrinelli) rimasi a bocca aperta. Una verità così cruda, assoluta, imprescindibile, ne sono stata rapita. Rende selvatici la scrittura, così c’è scritto in quel libro, ed è vero. Perché è assaggiare un sapore nuovo, diverso, qualcosa che fa parte di quell’ideale di libertà e leggerezza che la condizione umana spinge a rincorrere e che si sfalda di continuo, irraggiunto. Penso sia stata una felicità magnifica per alcuni scrittori, Calvino per esempio, mordere quella libertà, raggiungerla scrivendo certe pagine. Ma c’è anche un contraccolpo in questo paradiso di scrittura, qualche volta ti stringe lo stomaco per un umore insensato di chi sa bene che le parole portano troppo lontano, così lontano… Immagino tu abbia trovato un terreno fertile per la solitudine di cui la scrittura si nutre, so che vivi da solo e basti a te stesso, magari qualche volta no, qualche volta la notte ti mette addosso il pensiero dolcissimo di un amore e allora si allungano le ombre e scricchiolano i mobili nelle altre stanze. So molto poco della tua vita, in quel breve periodo di convivenza lavorativa mi sembra che ci siamo annusati come fanno le persone quando si riconoscono in una terra straniera, scoprendo di parlare la stessa lingua, lo stesso codice. Sei un’anima gentile e questo la gente lo percepisce benissimo, sei di quelli che si feriscono con niente, col vento. Ecco, penso spesso che se esistesse un ordine del mondo, l’ipotesi di una divinità creatrice, nel suo progetto impossibile ci sarebbero persone come te, fragili e piene di carattere. Dimostrare questa sensibilità oggi vuol dire esporsi, è un atto rivoluzionario. Ricorro ancora a Marguerite Duras, quando scrive: “La solitudine è sempre accompagnata dalla pazzia. Lo so. La pazzia non si vede, qualche volta soltanto si avverte, non credo che possa succedere altrimenti. Quando si tira fuori da sé tutto, tutto un libro, si è per forza nel particolare stato di una certa solitudine che non si può condividere con nessuno. Scrivere. Non posso. Nessuno può. Bisogna dirlo: non si può. E si scrive. E l’ignoto che abbiamo dentro, scrivere vuol dire raggiungerlo. È questo o niente”. Cosa aggiungere a una simile lucidità, Alessandro, non saprei cos’altro dire. Di quell’ignoto chiesi alla Rina, te la ricordi Rina Durante?, bianca e piccolina con le sue sigarette proibite, nel foyer dell’Hotel Patria a Lecce, mentre io insieme a te aspettavamo intrattenendoci con lei che la giuria del Premio Salento ci raggiungesse per le interviste che dovevamo fare per la nostra emittente. Te lo ricordi? Era la sua ultima scorciatoia per la vita, una grande scrittrice, Alessandro, una grande donna che il Salento finge di ringraziare con premi postumi di becchinaggio. La Rina lo conosceva quell’ignoto, me lo disse durante un’intervista che le feci a casa sua, con autoironia, con rabbia. Non pensavo che la vita potesse farmi dei regali così grandi, conoscere la Rina per esempio, imbambolarsi in un foyer. Ti voglio salutare con una poesia sua, nata come un messaggio frettoloso lasciato ad alcuni suoi amici e poi reso pubblico dopo la sua morte: “Dove sono? Come rispondervi? Sono nel bosco di seta e di piccoli fauni, i funghetti trallallà, se guardate bene sono l’aquilone che guizza, libero, nell’azzurro, per tutti i bambini incatenati a un banco di scuola, oppure sono il delfino che nuota, libero. Sono ovunque mi porti l’estro di una giornata come questa, dono degli dei”. Non ho con me il testo ma credo di ricordarlo a memoria. Tu hai scritto qualcosa che racchiude lo stesso significato, lo fai dire a Gino il barbone: “(…) il fatto è che a noi resta solo una cosa da fare, dopo aver soddisfatto i bisogni primari: guardare la vita”. Sì, è così, te lo giuro. Perché aveva ragione Pavese: “Chi sa vivere non scrive e chi scrive non sa vivere”. A ognuno il suo. Con un grazie.

Luisa Ruggio

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Il Folle – Alessandro Romano

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