Cookie Consent by Free Privacy Policy Generator website Capua Gambatesa, un viaggio

Capua Gambatesa, un viaggio

Immerso fra le verdi alture dell’Appennino molisano, a sorvegliare un ramo del lago Occhito, sorge un piccolo e antico borgo ricco di storia e bellezza: Capua Gambatesa.

Probabilmente qui c’era già un insediamento, sin da epoca Romana, poi sviluppatosi attorno ad una rocca longobarda: la leggenda vuole esso prese il nome da un difetto fisico del suo primo proprietario. Del castello esistono alcune fonti che ne parlano a partire dal XII secolo, ed era situato in un passaggio cruciale lungo la strada che portava verso il Tavoliere delle Puglie, che da tempo immemorabile era teatro della transumanza delle greggi che scendevano dai monti abruzzesi. La fortezza divenne col passare dei secoli una splendida dimora gentilizia, durante il Cinquecento, quando le sue stanze vennero affrescate da Donato da Copertino, su richiesta di Vincenzo di Capua d’Altavilla, duca di Termoli, che gli commissionò l’impegnativa impresa decorativa per celebrare i propri fasti e quelli del proprio casato. Espressione del manierismo cinquecentesco, il ciclo dei dipinti, raffigurante paesaggi, grottesche, tendaggi, pergolati, scene mitologiche e allegoriche, costituisce nel suo insieme una testimonianza di arte di notevole livello artistico. Di particolare interesse sono le figure allegoriche delle virtù cardinali. Donato era pregno del grande fulgore artistico che animava l’Italia in quegli anni, e certamente operò anche con Giorgio Vasari, negli anni 40 del Cinquecento. Passeggiando fra queste sale ci sembra di rivivere quegli anni, con la vividezza di questi colori. Nella Sala del Camino, si nota un tondo con il busto di un guerriero, che probabilmente raffigura uno degli eroi della famiglia Di Capua, Giovanni, che nel 1495 sacrificò la vita per salvare il re Ferdinando II d’Aragona. Poi si entra nella Sala dei Paesaggi. Qui si possono ammirare alcune scene allegoriche, che dovevano suggerire ammonimenti morali che richiamano la figura del nobile Vincenzo Di Capua. Inquadrato da una cornice violacea, è dipinto un paesaggio collinare, con due grandi torri dirute. Il paesaggio ricorda le rappresentazioni di Roma, che tra fantasia e realtà cominciavano a diffondersi sempre di più nel Cinquecento. Sembra di riconoscere Ponte Milvio, prima delle successive trasformazioni. Spicca una scena con una città che brucia. L’ambientazione, vagamente Romana, anche per via dell’acquedotto in rovina, potrebbe alludere al tremendo sacco di Roma del 1527 operato dai Lanzichenecchi, oppure all’episodio biblico di Sodoma e Gomorra. Nella Sala delle Maschere, fra un tripudio di foglie d’acanto, la relazione fra i diversi soggetti esprime anche qui un significato morale: la sapienza antica non può che trovare compimento nella verità cristiana, il paganesimo antico è ormai un ricordo, testimoniato dai ruderi e dalla prevalenza della natura, mentre si erge sino al cielo la basilica vaticana. Qui si nota anche la firma dell’autore, Donato, la cui operosità di artista è simboleggiata dalla tela del ragno. Enorme il Salone delle Virtù, sontuoso ambiente carico di figure allegoriche, mitologiche e paesaggistiche. La Sala del Pergolato, tutta decorata da grandi ramificazioni di vite e grappoli d’uva, illustra le virtù del feudatario e dei suoi discendenti, la dedizione al lavoro e allo studio. Ed anche l’eroismo degli antenati, come Matteo da Capua, l’eroico condottiero che morì nel 1480 per difendere Otranto dai Turchi: a questa vicenda fa riferimento la battaglia qui raffigurata, che probabilmente raffigura la riconquista della città salentina, avvenuta nel settembre 1481, ad opera di Alfonso d’Aragona, sostenuto anche dalle navi genovesi e papali. I dettagli sono veramente realistici, e testimoniano la perfetta conoscenza dell’artista dei navigli e le galee dell’epoca. Si nota la mezzaluna turca, i cannoni in azione, con la lingua di fuoco delle loro esplosioni, la nave colpita e rovesciata coi naufraghi che lottano con le onde, i turbanti turchi dei rematori, la torre del serpe, simbolo della costa otrantina. Una pagina vibrante di Storia rivive fra queste pareti. Di fronte al castello, c’è la chiesa di San Bartolomeo Apostolo Situata al centro del paese, nelle immediate vicinanze del castello medioevale, ricostruita e modificata nel corso del tempo, fu consacrata nel 1696. Sulla facciata del campanile si può ammirare un trittico costituito da tre pannelli che raffigurano la Vergine, S. Bartolomeo Apostolo e l’Agnello crucifero. Nel borgo ho incontrato anche quest’altra chiesa, di cui non ho trovato notizie, che forse è la più autentica e antica del paese. Di fronte ad essa, sopra un moncone di colonna, c’è una croce ricavata da un unico blocco di pietra, con il Cristo al centro di essa, da entrambi i lati. Da quello posteriore si intravedono i simboli dei quattro Evangelisti, posti alle estremità della croce stessa. Caratteristico il tomolo che si incontra in una stradina del borgo vecchio. Presenta 4 cavità scolpite nella pietra, che rappresentavano 4 unità di misura, in un’epoca ed un’economia spesso dominata dal baratto. Qui, come in altri centri molisani e abruzzesi, veniva utilizzato anche per misurare la quantità di cereali data in prestito e che all’atto della restituzione doveva essere misurata nello stesso contenitore con l’aggiunta di una certa quantità di interesse. In molti paesi il tomolo era usato anche come gogna pubblica, un mezzo ingeneroso per esporre al ludibrio coloro che non avevano saputo tener fede agli impegni finanziari. Chi non era in grado di ripagare il prestito era costretto a calarsi i pantaloni e restare seduto sul tomolo esponendosi allo scherno dei passanti. Il borgo, oggi vive in una pace beata, i bambini vagano tranquillamente da soli per le viuzze, troppo piccole per far passare automobili. Da ogni angolo del centro storico c’è uno scorcio sulle verdi vallate circostanti. Il tempo si è fermato, qui in Molise. Vale sempre la pena fermarci anche noi, qui, per ritrovare noi stessi.

ALESSANDRO ROMANO (chi sono)

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