Cookie Consent by Free Privacy Policy Generator website La Croce, fra vittime inquisitori e macàri

La Croce, fra vittime inquisitori e macàri

L’esortazione costante al popolo analfabeta di offrire la pratica devozionale della corona del rosario come una ghirlanda di rose mistiche alla Madonna risaliva al lontano 1214, allorquando, secondo la leggenda, Domingo Guzman de Calaruega, canonico regolare del Duomo di Osma, ricevette in dono dalla Beata Vergine il primo rosario, 

detto anche salterio, quale strumento per combattere le eresie e contrastare gli effetti devastanti della Riforma protestante.

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I miracoli di San Domenico, chiesa dei Domenicani, Cavallino

La predicazione del canonico divenuto santo fu incentrata, infatti, sulla divinità di Maria e sulla recita del rosario per annientare l’eresia, in modo particolare quella albigese. A tal proposito il 20 aprile del 1233 Gregorio IX emanò la Bolla che affidava ai seguaci di San Domenico il privilegio dello sradicamento dell’eresia con l’istituzione del Tribunale dell’Inquisizione, caldeggiando per gli eretici una condanna esemplare, culminante in genere con la condanna al rogo. In questa prospettiva i Domenicani si mobilitarono alacremente per difendere la retta via dell’ortodossia. Ma la loro crociata, implementata più tardi dall’ingerenza della Corona di Spagna, sfociò nella brutale repressione del tribunale speciale della Santa Inquisizione e nella dittatura dispotica del Santo Uffizio deputato a mettere al bando i libri proibiti nel tentativo di rendere obbediente il popolo ignorante e di ingabbiare la libertà di pensiero degli eruditi, che potevano distogliere la massa rozza e incolta.

inquisitori

Uno strumento di tortura medievale utilizzato dagli inquisitori.

Nel segno dei tempi i Frati Predicatori da teologi si trasformarono in inquisitori, accanendosi contro pagani ed eretici, che, al cospetto del crocefisso velato, venivano sottoposti a torture inaudite prima di essere purificati dalle fiamme. Il loro inquisire, andando alla ricerca della verità, si rivelò funesto per migliaia e migliaia di sfortunati, che, per disparati motivi, soprattutto per la brama di incamerare il loro patrimonio, finivano nel mirino del tribunale speciale. E venne il tempo in cui la religione divenne superstizione acuita dall’ignoranza, dal fanatismo e dalla tirannide dei poteri forti. Chiesa e Corona in combutta tra di loro suggellarono un patto di alleanza per esercitare un controllo paralizzante sulle masse. Istituito nel 1184 da papa Lucio III con l’obiettivo di reprimere l’eresia e scovare gli eretici, l’apparato inquisitorio fu ritoccato da altri pontefici desiderosi di rimanere nel libro della storia della Chiesa per i loro alti meriti. Nel 1215, nel corso del Concilio Lateranense, il pontefice Innocenzo III, sdoganò il collegio dell’Inquisizione come modello di giustizia eccelsa per scovare e annientare gli eretici. In quel solco si collocò anche Onorio III, mentre nel 1231 Gregorio IX nominò i primi inquisitori, prediligendo sia Francescani sia Domenicani, che non esitarono a macchiarsi di stragi scellerate in preda ad un’isteria religiosa sempre più contagiosa. Di certo il loro fondatore, deceduto a Bologna dodici anni prima, sarebbe rimasto sbigottito di fronte a tale degenerazione in nome della croce acuita dai pontefici e dalle loro armi affilate riposte nelle bolle. Il 1 novembre 1478 papa Sisto IV benedisse l’Inquisizione spagnola, ardentemente bramata dai sovrani Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, nel tentativo di scongiurare rivolte, reprimerle nel sangue e scatenare la pulizia etnica di Mori, Ebrei e conversos ossia di quanti erano stati costretti a convertirsi con una spada alla gola, per amore di un uomo o di una donna o per accedere ai prestigiosi incarichi presso la corte reale. Il sogno della cattolicissima Isabella di governare un unico stato con un’unica religione si avverava. Per ragion di stato non solo la corona spagnola, ma anche quella francese ricorse all’Inquisizione.

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Brindisi, chiostro della chiesa Madonna del Casale, teatro degli inquisitori brindisini.

Nel maggio del 1310 a Brindisi, nel tentativo di sterminare i Templari e di impossessarsi delle loro ricchezze, venne celebrato il processo ai cavalieri-monaci del Regno di Napoli accusati di centoventisette reati tra cui apostasia, idolatria, eresia e sodomia. Come sede distaccata del tribunale speciale venne scelto il convento adiacente all’area occupata allo stato attuale dalla chiesa dedicata a Santa Maria del Casale. Ad orchestrare l’interrogatorio farsa il re di Napoli, Carlo II d’Angiò, in combutta con il cugino Filippo il Bello, re di Francia, entrambi avidi cacciatori di tesori. Con falsi testimoni prezzolati e confessioni estorte con torture comminate nel castello di Barletta ai malcapitati lì presenti, poiché gli altri, temendo il peggio, erano riusciti a rifugiarsi in luoghi sicuri, vennero depredati tutti i beni; gli altri accusati vennero condannati in contumacia.

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Brindisi, stemmi all’interno della Madonna del Casale.

Per seicento anni il terrificante congegno dell’Inquisizione funzionò alla perfezione, macchiandosi di delitti e misfatti, che alimentarono la “leggenda nera” degli inquisitori. Lo scopo principale del processo e della condanna a morte non era quello di salvare l’anima del reo, ma di lanciare un monito per terrorizzare il popolo. Con il tempo la condanna per eresia si tramutò in crimini contro lo Stato, coinvolgendo le alte sfere del potere politico alla ricerca di un sostegno ufficiale persistente nel tempo; la tortura divenne uno strumento efficace volto ad eliminare personaggi ricchi e scomodi e a consolidare il potere politico. I condannati, oltre ad essere mandati al rogo, subivano l’esproprio dei beni, che rimpinguavano non solo le casse della macchina inquisitoria, ma anche i forzieri del tesoro reale spagnolo oltre alle tasche di delatori e inquisitori, familiari, vicari, commissari e ufficiali subalterni pronti a scagliarsi come lupi famelici alla gola di poveri innocenti scovati da torme di spie. In un clima infestato dal sospetto, i Domenicani, definiti dal volgo i cani del Signore, alimentarono un conflitto esasperato da chi spiava e denunciava per averne un tornaconto personale. Dall’ossessione medievale delle fiamme dell’Inferno a causa del giudizio divino si passò all’incubo delle torture più raffinate per onorare il verdetto di uomini fanatici e quanto mai solerti a destinare al rogo o ad ardere vivi nella pece bollente i condannati. In virtù di questo repressivo strumento di controllo si affermò una teocrazia al servizio della monarchia. 

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L’inferno rappresentato nella chiesa di Santo Stefano, a Soleto.

In un clima di ignoranza e di pregiudizio la diffusione del sapere richiedeva un prezzo troppo alto da pagare. Per il rotto della cuffia se la scampò Matteo Tafuri (1492-1584) conosciuto come Matthaeus Soletanum ossia Matteo da Soleto, laureato in Medicina e Filosofia alla Sorbona e cattedratico presso l’università di Salamanca. Il ritratto di colui che fu l’idolo dei grandi, la delizia dei letterati e lo spavento degli ignoranti, emana sapienza ancora ai nostri giorni attraverso la tela inglobata nel 1580 sull’altare ubicato lungo la navata sinistra della chiesa matrice di Soleto e dedicato alla Madonna del Rosario.

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Una rara immagine di Matteo Tafuri, rappresentato col copricapo rosso della Sorbona, all’interno della chiesa madre di Soleto.

Rispettato, onorato e temuto per i suoi poteri divinatori nella Soleto del Cinquecento il sapiente erudito venne considerato alla stregua di un mago dedito a malefici e a sortilegi sino al punto che fu costretto ad incidere sull’architrave della sua casa il motto HUMILE SO ET HUMILTÁ ME BASTA. DRAGON DIVENTARÒ SE ALCUN ME TASTA per tenere alla larga quanti lo molestavano. Esperto di occultismo e di esoterismo messer Matteo finì nei guai con l’accusa di governare sette spiriti rinchiusi in un cassetto. Per rivalità professionale venne deferito al Tribunale dell’Inquisizione, che, dopo averlo interrogato, per uno strano caso del destino, lo rilasciò con la consapevolezza che il sostrato culturale del Socrate di Soleto traeva origine da una terra popolata di macàri ossia di conoscitori di arti occulte.

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Lo stemma sulla casa di Matteo Tafuri, Soleto.

A Messer Matteo, reo di trasformare la pietra filosofale in oro, è intimamente connessa la leggenda della costruzione della guglia di Soleto in una sola notte, ricorrendo al sortilegio di evocare demoni e spettri dal loro regno oscuro. Ai primi raggi del sole alcuni spiriti ribelli, intenti a scolpire bifore, arabeschi, colonne tortili, cornici trilobate, mascheroni e grifoni non fecero in tempo a tagliare la corda, rimanendo pietrificati con un ghigno apotropaico. Ma se questa è la leggenda la storia racconta, invece, un’altra versione. La guglia monumentale venne innalzata nel 1397 dal nobile Raimondello Del Balzo Orsini un secolo prima della nascita del sapiente soletano e il suo scopo oltre ad ostentare il potere della casata del glorioso Principato di Taranto era anche quello di fungere da torre di avvistamento al fine di ravvisare il pericolo che si profilava dal mare.

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Soleto, la Guglia di Raimondello Orsini del Balzo.

In un clima di intolleranza religiosa le università, fucine del sapere, divennero un covo di eretici. La difesa contro le nuove teorie fu affidata alle armi del rigore morale e della censura come nel caso di Galileo Galilei (1564-1642), costretto a confutare il dialogo sui massimi sistemi, del frate domenicano nolano Giordano Bruno (1548-1600), mandato al rogo per le sue idee rivoluzionarie, e dell’erudito di Taurisano, Giulio Cesare Vanini, dottore nella legge civile e canonica, ma soprattutto libero pensatore. Spirito inquieto Vanini, abbandonato il saio carmelitano, si schierò apertamente contro il sapere teologico medievale e rinascimentale, precorrendo l’Illuminismo sino a trasformarsi in bandiera di un ateismo esasperato dal sarcasmo e dall’irriverenza.

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Taurisano, casa natale del Vanini

A causa delle sue idee entrò in conflitto con gli interessi instaurati dai poteri forti basati su finzione e inganno al solo scopo di dominare la plebe ignorante e ingenua. Diciannove anni dopo il tragico falò di Giordano Bruno a a Campo de’ Fiori a Roma l’eretico Vanini, nato il 18 gennaio del 1585 in uno sperduto casale di Terra d’Otranto, venne mandato al rogo a Tolosa. Accusato di ateismo e bestemmie contro Dio, il 9 febbraio del 1619, a soli trentaquattro anni l’insolente salentino andò a morire allegramente come un filosofo, che identificava la divinità con la natura e propugnava la falsità della credenza nei miracoli. Senza pietà gli venne tagliata dapprima la lingua, poi venne strangolato e infine bruciato; per oltraggio le sue ceneri vennero sparse al vento. Con questo macabro cerimoniale terminava drammaticamente la vita di un filosofo considerato eretico da un regime autoritario plagiato da chi scambiava la filosofia per eresia.

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testo di Lory Larva

fotografie di Alessandro Romano

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