Cookie Consent by Free Privacy Policy Generator website Archeologia e antropologia del sacro

Archeologia e antropologia del sacro

Sin dal Neolitico la vita dell’uomo fu pervasa dal senso del sacro considerato alla stregua di una potenza soprannaturale. Le prime comunità agricolo-pastorali cercarono di istituire un rapporto con la divinità, che immaginavano potesse abitare nelle pieghe più riposte della terra. Ad essa attribuivano il prodigio della vita animale e vegetale, onorandola con sacrifici e libagioni, che compivano in grotte e ante grotte, recitando arcane formule magiche. A cavallo della rivoluzione culturale, che segnò il passo tra tribù nomadi e sedentarie, germogliò il culto della fertilità incentrato intorno alla madre della creazione, venerata, seppur con differenziazioni, da tutte le popolazioni, che si affacciavano lungo il bacino del Mediterraneo.

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Statuetta maschile, originariamente denominata “Venere degli Alimini”.

A documentarlo sono i ritrovamenti di numerose statuette femminili con il ventre prominente, definite convenzionalmente “Veneri”, che venivano realizzate prevalentemente in osso, in terracotta o in pietra da artisti emuli di stilemi standardizzati. Con le loro abili mani questi precursori degli scultori abbozzavano volto, gambe e braccia, esasperando seni, pancia, fianchi e glutei, in sintonia con il culto dedicato alla fecondità, che contemplava tra l’altro l’accentuazione degli organi sessuali nel tentativo di divinizzazione della maternità.

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Una delle due Veneri di Parabita

Nel panorama dei culti preistorici accanto alle vulve comparvero anche i falli, ai quali si attribuiva un potere sacro, basti pensare al piccolo idolo rinvenuto nel 1968 in una tomba artificiale del rione Riesci ad Arnesano in provincia di Lecce. In una dimensione magico-religiosa lo scopo di questi idoletti, una volta conficcati nel terreno o deposti nelle sepolture, era anche quello di proteggere i villaggi, allontanando nemici, forze occulte e spiriti del male forieri di malattie e morte; ma non si esclude, che mettessero in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti e venissero invocati nell’ora del trapasso da quanti speravano in un respiro di immortalità.

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Idoletto di Arnesano

Trascorso il tempo dell’abbandono dei cadaveri alle intemperie e agli animali sopraggiunse il pietoso rituale del seppellimento preludio al culto dei morti, il più antico e universale di tutti. Frequentemente il corpo veniva calato in una fossa e ricoperto con un lastrone di pietra oppure inumato in qualche anfratto. In molti casi veniva cosparso di ocra rossa, mentre intorno al cranio veniva adagiata una cuffia di conchiglie forate, come nel caso di Delia, tumulata venticinquemila anni fa insieme al suo bambino mai nato nella grotta di Santa Maria d’Agnano ad Ostuni in provincia di Brindisi.

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Riproduzione di Delia

Pallido riflesso del primitivo sistema di credenze religiose le manifestazioni artistiche delle “Veneri” esaltarono il concetto dell’esistenza di un’entità divina superiore, perché in grado di generare per partenogenesi e di esercitare il potere di sovrintendere alle dinamiche conflittuali tra allevatori di bestiame ed agricoltori. Finché la società fu matriarcale dominò la dea madre, quando si trasformò in patriarcale, tipica dei popoli pastori, emerse prepotentemente la figura del dio padre, re, guerriero, eroe e sacerdote. Il principio creatore divenne maschile; esplose la violenza e soffiarono venti di guerra con il profilarsi all’orizzonte di una corsa alle armi tecnologicamente più evolute.

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Rappresentazione dell’ideale estetico dei popoli agricoltori e delle loro credenze scaramantiche, le “Veneri”, progenitrici della Grande Madre, corrispondevano a donne, che, consultate, amate, temute, servite e riverite, dai diversi membri della comunità, nelle vesti di regine o di sacerdotesse, in via del tutto eccezionale, potevano vivere in condizione privilegiata all’interno di grotte-santuario.

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Panorama presso le Serre di Sant’Eleuterio, a Parabita

Proprio una di queste caverne-santuario, individuata a Parabita in provincia di Lecce, ha restituito nel 1966 due statuine in osso levigato rappresentanti la donna-madre in avanzato stato di gravidanza. Sebbene rinvenute in una stratigrafia sconvolta, si ritiene che esse appartengano al deposito gravettiano, contestualizzato lungo la Serra di Sant’Eleuterio, e siano inquadrabili tra i 12.000 e i 11.000 anni fa circa.

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Veneri di Parabita

Relitto culturale di lontani vissuti cognitivi connessi alla fertilità, rimane la pietra forata custodita nella cappella di S. Vito alla periferia di Calimera in provincia di Lecce. Paragonabile a un mehn-al-tol rappresenta un cordone ombelicale, mai reciso, con i rituali pagani, che, nonostante lo sterminio compiuto dal cristianesimo, hanno resistito saldamente nei contesti più arretrati e isolati delle campagne salentine, dove si praticava un’agricoltura di sussistenza.

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La pietra forata di Calimera

Da secoli, il lunedì dell’Angelo, si rinnova il rito propiziatorio del passaggio di uomini e donne attraverso il foro della sacra roccia nel solco di un retaggio atavico di prolificità per una società rurale, che conservava ancora tratti arcaici.

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Interno della chiesa di San Vito

I miti e i riti delle comunità preistoriche rimandavano ad archetipi primordiali, che celebravano la ierogamia tra cielo e terra. Con l’affermarsi di un’economia agricola la necessità di disporre di uno strumento per calcolare i momenti della semina e del raccolto, i solstizi e le fasi lunari, divenne un bisogno primario per la sopravvivenza della comunità, che, alla mercé di tutte le forze naturali, si poneva sotto l’egida della divinità primigenia. Nel ciclo naturale umano e cosmico il fenomeno del transito di stelle e costellazioni, venne associato a culti e riti, come dimostrato da recenti studi sugli orientamenti dei monumenti megalitici (dolmen e menhir) disseminati in tutta Europa e convertiti sia in tombe sia in altari, che gettavano un ponte tra questo e l’altro mondo.

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Menhir Vardare, Diso

In Terra d’Otranto le lontane tracce dell’uomo e l’oscura pratica di riti propiziatori e sciamanici sospingono nei profondi recessi, incastonati nelle viscere della terra e lungo le scogliere a picco sul mare, dove, in un barlume di paradiso perduto, furono attive dal Paleolitico all’età dei Metalli: Grotta dei Cervi (Porto Badisco), Grotta dei Cappuccini (Galatone), Grotta delle Veneri (Parabita), Grotta del Cavallo (Porto Selvaggio), Grotta Romanelli (Castro).

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Riproduzione del bovide ritrovato all’interno della Grotta Romanelli (Castro)

Considerati come punto di riferimento dalle tribù, che vivevano nella zona, questi antri, in alcuni dei quali si compivano veri e propri cerimoniali di iniziazione, rappresentavano veri e propri luoghi dello spirito. Nella Grotta dei Cervi di Porto Badisco il simbolismo spirituale delle popolazioni, che la frequentarono, aleggia ancora sulle pareti e lungo la volta, dove si possono sfogliare le pagine di un libro di pietra affrescato con un repertorio iconografico di mirabile bellezza per certi versi ermetica.

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Badisco. Foto di Pino Salamina, tratta dal libro “Pagine di Pietra”

Episodi di caccia al cervo, mani, stelle, arabeschi, spirali e losanghe venivano dipinti con l’ossido di ferro e il guano di pipistrello, ricorrendo ad una tecnica stancante, che assumeva un’alta valenza simbolica. Soffiando il colore dalla bocca l’artista proiettava se stesso sulla roccia, affinché, nella brutale lotta per la sopravvivenza, la divinità concedesse al clan riserve di cibo, acqua, riparo e scorte di selvaggina attraverso la caccia. Nella Cappella Sistina della preistoria salentina si annidava il mistero tra materia e spirito, che continuò ad incutere fascino e timore reverenziale alle civiltà, che fiorirono successivamente lungo il bacino del Mediterraneo.

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Mandrie di bestiame riprodotte nella Grotta (Pino Salamina, foto tratta dal libro “Pagine di Pietra”)

In questo contesto, chiuso come un cortile a cielo aperto, nel corso dei secoli, si propagò a macchia d’olio il più alto numero di culti tributati a divinità deputate alla semina, al raccolto e alla rinascita della vita. Nella sfera egiziana si affermò il culto di Iside e Osiride, nel mondo orientale quello della Magna Mater (Cibele), in quello greco di Demetra e Persefone e in quello romano di Cerere e Bacco.

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Ricostruzione del Tempio di Iside scoperto a Lecce dal Prof. F. D’Andria

La primitiva religione naturale, che adorava le forze della natura, fu adombrata da un pantheon di divinità antropomorfe del tutto simili agli esseri umani, ma immortali. Il mondo dei morti divenne il regno del sovrannaturale. Dagli altari cerimoniali primitivi si passò agli impianti cultuali delimitati da cippi sino a pervenire ai magnifici templi delle città stato greche quattrocento anni dopo il crollo dei regni micenei; l’offerta delle primizie della terra (cereali, legumi, frutti, bevande e latte appena munto) venne sostituita dalla consuetudine da parte dei devoti di donare oggetti preziosi, che confluivano nel tesoro del tempio posto sotto la tutela di sacerdoti. In veste di custodi erano gli unici che potevano accedere nella cella sacra, ossia il santuario, in cui era alloggiata la sontuosa statua della divinità. Ogni dio ebbe il suo altare sul quale venivano compiuti i sacrifici rituali delle vittime sacrificali. Il tempio, che rifletteva l’armonia del cosmo, divenne luogo di culto, ma anche cuore pulsante della profezia e dell’arte divinatoria. Presagi e messaggi di natura divina venivano tratti da calderoni in bronzo, dal volo degli uccelli e dallo stormire delle foglie di alberi, come, ad esempio, il platano sempre verde a Creta, e gli ulivi, come quello piantumato sull’acropoli di Atene dalla dea Athena, nume tutelare della città ritenuta culla di civiltà occidentale, e a Delo.

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Grotta Porcinara, Leuca

A Dodona, nel più antico santuario oracolare del mondo antico, all’ombra di una quercia dimorava Zeus, venerato nel santuario emporico di Grotta Porcinara a Leuca con il nome di Batas e invocato sull’acropoli di Ozan, la messapica Ugento, come lo Zeus Kataibates di matrice greco-tarentina. In un recinto sacro monumentalizzato il dio fulminatore era raffigurato, su una colonnetta votiva sormontata da un capitello ornato con rosette, completamente nudo mentre con la mano destra brandiva la folgore, pronta ad essere scagliata per incenerire coloro, che si macchiavano di atti sacrileghi, e con la sinistra artigliava un’aquila.

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Riproduzione dello Zeus ritrovato a Ugento

All’apice dello splendore dell’affabulazione mitica i malati si recavano nel santuario di Asclepio ad Epidauro per ottenere la guarigione. Dopo bagni lustrali di purificazione si abbandonavano ad un sonno ristoratore, sperando nell’apparizione del dio apparso per suggerire il farmaco o per guarirli dalla malattia. I morti tornavano nel grembo della madre terra con l’auspicio di rinascere a nuova vita sulla scia dei culti misterici come quelli che andavano in scena ciclicamente nel santuario panellenico di Eleusi in onore di Demetra e Kore intimamente connessi alla fertilità (ostensione della spiga di grano) e alla fecondità (presenza nel sacro paniere del sacro fallo di Dioniso). La simbologia fallica ritornava prepotentemente nel culto di Cibele e Attis la cui auto evirazione rappresentava il sacrificio in cambio della fertilità della natura.

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Organi sessuali riprodotti in pietra, ritrovati presso Valesio

Dopo aver digiunato per nove giorni, bevendo il ciceone a base di segale cornuta in grado di provocare effetti allucinogeni, nel corso della notte sacra i partecipanti ai grandi e ai piccoli misteri, scendevano in una cavità sotterranea per risalire al lume di fiaccole una volta venuti a conoscenza dei segreti della vita e della morte. In un’aura mistica il cammino iniziatico degli adepti dal buio giungeva alla luce della gioia della pax deorum a suggello di un equilibrio armonico indice di una osmosi con lo spirito divino; si spalancavano le porte dell’universo degli dei pagani destinati ad essere estirpati dal cristianesimo e ad essere cancellati dal vento dei secoli.

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Oria, statuine femminili

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Pietra dipinta ritrovata all’interno di Grotta Romanelli, datata 10000 A.C.

Testi di Lory Larva

Fotografie di Alessandro Romano

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One comment to Archeologia e antropologia del sacro

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