Cookie Consent by Free Privacy Policy Generator website La Madonna della Strada, gioiello medievale del Molise

La Madonna della Strada, gioiello medievale del Molise

Nel cuore del Molise, a poca distanza dal borgo di Matrice, si eleva in un sito sopraelevato uno dei capolavori romanici più significativi dell’arte medievale della regione:

la chiesa di Santa Maria della Strada, un tempo anche abbazia benedettina. Non sappiamo con certezza da dove derivi questo nome, perché l’edificio non sembra si trovi lungo particolari direttrici viarie, a meno che non si consideri le arterie stradali di epoca Romana. Ecco perché qualcuno suggerisce che il nome non si riferisca a una strada specifica ma piuttosto richiami la Madonna Odigitria, interpretata in senso letterale come protettrice e guida del fedele viandante. Anche le fonti circa la sua nascita sono contraddittorie, una pergamena la cita già nell’anno 1039, mentre al 1148 risale la consacrazione da parte dell’arcivescovo di Benevento. Attorno all’abbazia si formò un villaggio popolato dai contadini che si posero alle dipendenze dei monaci. E’ costruita con una cura non comune per la regione. Ciò è evidente nel paramento murario esterno, quasi ovunque costituito da blocchi di pietra squadrati e accuratamente levigati. L’interno è piuttosto semplice. La suddivisione fra le tre navate è realizzata tramite due file di cinque archi a tutto sesto, ciascuna retta da quattro colonne e due semi colonne alle estremità. Il principale motivo della popolarità di Santa Maria della Strada sono i bassorilievi che rivestono le pareti esterne. Vengono generalmente considerati parte di un programma unitario, ma il suo senso complessivo è dibattuto fra due filoni molto diversi. A lungo è stata ampiamente accettata la lettura data dalla storica specializzata nell’età normanna Evelyn Jamison: secondo lei le fonti di tali raffigurazioni sono da cercare nella letteratura medievale, e soprattutto nelle canzoni di gesta di provenienza francese. Ciò legherebbe la chiesa al clima culturale della nobiltà normanna che governava l’Italia meridionale, e la scelta può essere motivata dagli intenti autocelebrativi dei dominatori. Sono state tentate anche spiegazioni partendo dal presupposto, non dimostrato, che la chiesa si chiami “della Strada” perché luogo di passaggio per i pellegrini, diretti verso il santuario di San Michele Arcangelo e la basilica di San Nicola a Bari, in una regione che non offriva strade molto confortevoli. Osserviamo i suoi tanti dettagli architettonici, e le storie che ci raccontano. La lunetta del portale laterale racchiude una mezzaluna centrale in un susseguirsi di archi concentrici. I più esterni poggiano su mensoline che fungono da capitelli per le lesene del portale: tanto essi quanto la mensola sinistra sono decorati con motivi vegetali. La mensola di destra, invece, reca un’aquila. Segue un arco fatto di cunei non decorati, stavolta poggiante soltanto sulle mensole: a sinistra si ripete la decorazione a foglie, a destra compare una cerva. L’arco più interno, costituito da un monoblocco, e la mezzaluna al suo interno, sembrano strettamente correlati. Il bassorilievo nella mezzaluna viene comunemente letto come l’episodio del volo di Alessandro, in una versione molto vicina a quella del X secolo tradotta in latino da Leone Arciprete. Protagonista della scena è Alessandro Magno che prende il volo spinto in aria da due grifoni, e regge due manici che, secondo il racconto, in cima dovrebbero avere dei brani di carne che attraggono le due bestie, facendo alzare così in volo il re. Dietro di lui sono i raggi del sole. In cima all’arco, sopra la testa di Alessandro, è l’Agnus Dei, in riferimento al cielo dove Alessandro sarebbe diretto allo scopo di guadagnare l’immortalità. Attorno a lui è una decorazione a foglie di palma, che discende verso due pistrici che guardano la scena centrale. Per quanto questa sembri una riproposizione di un tema decorativo riscontrabile per esempio in Campania, non è da escludere che si tratti di una rappresentazione del Figlio di Dio che umilmente scende sulla terra, a immolarsi per salvarla dal male, in aperto contrasto con la superbia dell’atto di Alessandro Magno (nel racconto, infatti, un angelo gli consiglierà di tornare indietro, e infine Alessandro verrà respinto). Il concetto sarebbe rafforzato dalla frase scolpita sopra il portale, che tradotta dal latino recita: “Chiunque farà la volontà di mio Padre, che è nei cieli, vi entrerà”. Sulla destra dell’aquila, ricavata nello spessore della lunetta, è la figura di un uomo con un fagotto in spalle e una scarsella. Viene tradizionalmente interpretata come immagine di pellegrino; però sembra anche che l’uomo stia trainando un peso attaccato alla sua cintura: simbolo della condanna inflitta da Dio ad Adamo ed Eva o anche, più semplicemente, rappresentazione realistica di un contadino di ritorno dai campi. La lunetta dell’arco cieco, a destra del portale principale della chiesa, è delimitata da una fascia di rosette, racchiuse entro cerchi marcati da scanalature, non diversamente da un capitello dell’interno. I quattro cerchi più a destra, però, non contengono rosette bensì un’aquila, un leone con una preda e due figure umane, rispettivamente con un arco e con un bastone e una spada: il loro significato non è chiaro, in quanto la lettura come simboli dei quattro evangelisti è dubbia. Un motivo vegetale ricopre l’intradosso che separa tale fascia dalla lastra della lunetta. Questa è, a sua volta, coronata da un motivo a onda, nei cui spazi si distinguono delle infiorescenze. Sotto tale motivo, la lunetta appare scolpita in due ordini. In quello superiore è un uomo con in mano uno strumento poco comprensibile, dietro a un cavallo sellato e bardato. In quello inferiore si susseguono tre medaglioni: in quello centrale è un personaggio maschile con in mano un corno da caccia, ai due fianchi due figure di cervi maschi. Due alberi molto stilizzati si innalzano fra tali medaglioni e il coronamento. Alcuni studiosi hanno identificato il personaggio nel medaglione con Rolando, che nel corso della battaglia di Roncisvalle suonò l’olifante, in cerca del soccorso da parte di Carlo Magno, con tanta forza che il suo sforzo sarà mortale: esso viene reso con il gesto della mano poggiata sull’addome. La presenza dei cervi evocherebbe il tradimento da parte di Gano, che distolse l’attenzione da tale richiesta di aiuto sostenendo che Rolando stesse suonando il corno solo perché era in giro a caccia. Gli alberi simbolizzerebbero quindi la foresta in cui è avvenuto l’episodio. L’episodio sarebbe rappresentato secondo la versione dello Pseudo-Turpino, e l’immagine sopra i medaglioni sarebbe da interpretare come Balduino che sta per montare sul cavallo di Rolando per annunciare la disfatta a Carlo. Altri studiosi che ricordano come i cervi siano menzionati nella Chanson de Roland perché si paragona la loro fuga dai cani durante la caccia a quella dei Saraceni da Rolando. In modo molto dubbio, essi vedono nella scena superiore i vani tentativi di Rolando, sceso da cavallo poco prima della morte, di distruggere la spada Durlindana, che invece generò la Breccia di Orlando. Altri ancora ipotizzano che non vi è motivo di identificare il personaggio nel medaglione con Rolando, anche perché non indossa armatura: si tratterebbe invece di una generica scena di caccia, inserita per il suo valore violento ma anche irrazionale; il personaggio dietro il cavallo sta maneggiando un ferro di cavallo tramite una tenaglia; ciò vorrebbe significare che il cacciatore è così accecato dal desiderio di sangue che non si rende neanche conto di stare suonando il corno prima ancora che il suo cavallo sia pronto per inseguire la preda. Poi vi sono altre interpretazioni, come quella di una tranquilla scena quotidiana nelle campagne, minacciata dalla violenza del mondo esterno. Nella lunetta sopra il portale principale della chiesa viene applicata un’originale scelta decorativa: un arco di cerchio che funge da base per cinque colonne che si diramano a raggiera sormontate dai loro capitelli. Il motivo richiama vistosamente il sovrastante rosone. Un’imponente sequenza di archi concentrici, progressivamente più aggettanti, media la transizione dalla lunetta al frontone dello pseudo-protiro. Prima un motivo geometrico; poi una curiosa immagine di due serpenti che, simmetricamente, hanno ciascuno fra le fauci un uomo morto, e ancora, rosette e palmette non dissimili da quelle dei capitelli e delle altre lunette. Il frontone dello pseudo-protiro, il cui cornicione è anch’esso decorato a palmette, poggia su due mensole che a loro volta sporgono dalle lesene attorno al portale. La superficie del frontone risulta divisa in più scene. Gandolfo legge una parte di esse ancora come richiami alla perdizione all’infuori del vivere cristiano; in tale discorso si inseriscono anche i già citati serpenti, dal valore demoniaco, che quindi vanno visti come richiamo alla punizione infernale. Mentre sul pennacchio sinistro del frontone, nello spazio ricavato a fianco delle arcate della lunetta, troviamo, a partire dal basso, la violenza di tre bestie campestri che si azzannano. Poi è un leone con un uomo fra le zampe, immagine biblica riportata dai Salmi: “Salvami dalla bocca del leone”. E infine, un cavaliere che brandisce la sua spada contro un altro leone che sta attaccando il suo cavallo: anche questa scena trova degli analoghi in Campania e simboleggerebbe lo scontro fra ragione e violenza irrazionale. Violenza che troviamo ancora nel pennacchio di destra, nella scena più in alto: questa, benché rovinata dal tempo, sembrerebbe raffigurare una lotta fra due personaggi, attorniati da altre figure umane e un uccello. Secondo il Valente si tratterebbe del primo omicidio (ma anche della prima morte) della storia dell’umanità, ossia l’uccisione di Abele per mano di Caino. Al di sotto di tale immagine, troviamo il tema paleocristiano dei pavoni che si abbeverano alla fonte simbolo della grazia divina. Sotto di essi è la figura di un angelo, intriso di riferimenti all’Apocalisse di Giovanni. Nel timpano compaiono tre uccelli attorno a una figura che cavalca all’amazzone un cavallo visto di profilo. Una striscia circonda la testa del personaggio un po’ come se fossero dei lunghi capelli, un po’ un’aureola. E se la veste lunga, stretta e scollata, e la posa a cavallo fanno propendere per un personaggio femminile, si è pensato alla Vergine Maria, o meglio la Madonna della Strada cui è intitolata la chiesa, ma sulla testa si scorgono quelli che potrebbero essere dei corti capelli maschili. Nella stretta fascia fra il timpano e i pennacchi, interrotta dalla lunetta, viene ricordato il preambolo della vittoria del Cristo, ovvero la sua risurrezione dalla morte. Ma non viene rappresentata direttamente bensì tramite un episodio premonitore, quello del profeta Giona: egli venne inghiottito da un grande pesce che lo vomitò, vivo, tre giorni dopo. Anche in questa fascia troviamo, simmetricamente, due lotte fra mostri marini, ancora una volta da ricondurre al tema della violenza irrazionale. La scena rappresentata nella lunetta a sinistra della facciata è la più dibattuta del ciclo. È probabilmente ambientata in una foresta; iniziando da sinistra, vi è un cavaliere che con la mano sinistra regge uno scudo, mentre con la destra regge una lancia e infilza un altro personaggio sotto un albero. Sulla destra, dietro un cavallo senza cavaliere sono due personaggi, apparentemente un uomo e una donna, mentre nell’angolo in basso a destra compare il busto di un altro uomo. Secondo Jamison, l’episodio rappresentato è tratto dalla saga di Fioravante, testo toscano che però risale ad un periodo successivo alla costruzione della chiesa, il XIV secolo. Jamison ritrova in questa scena una riproduzione piuttosto fedele del passaggio in cui egli salva Ulia, che era tenuta prigioniera da tre saraceni. Ulia (la donna sulla destra) vide avvicinarsi un cavaliere cristiano, Fioravante, il quale la liberò trafiggendo con la lancia uno dei saraceni, che cadde morto da cavallo (sarebbe il personaggio in basso a destra, da intendersi come morto perché le sue braccia sembrano incrociate); e poi facendo lo stesso con il secondo. Il terzo (che quindi sarebbe l’uomo di fianco a Ulia) fuggì. È stato suggerito che tale raffigurazione possa rappresentare i pericoli della foresta, con particolare riferimento al ratto delle donzelle durante un viaggio. Non vi sono prove della diffusione di tale saga in Italia meridionale nel periodo di costruzione della chiesa. Il Gandolfo propende a dare alla scena un’interpretazione veterotestamentaria: si tratterebbe delle vicissitudini di Assalonne, figlio del re d’Israele Davide, caratterizzato esteticamente dai lunghi capelli. Egli, dopo aver usurpato il trono paterno, si trovò a combattere le truppe radunate da Davide con a capo il generale Ioab; in seguito a una disfatta fuggì sul suo mulo, ma i suoi capelli si impigliarono in un albero. Nel nostro rilievo, è proprio il dettaglio dei capelli attorcigliati a un ramo ad attirare l’attenzione di Gandolfo. Lo stesso Gandolfo ammette che la scena, se correttamente identificata, è comunque estremamente rara. In conclusione, secondo Gandolfo, il richiamo all’Apocalisse è la chiusura trionfale di un filo conduttore di tutti i bassorilievi di Santa Maria della Strada: un racconto dei mali e della perdizione del mondo terreno, esemplificati tramite immagini note al fedele, i quali vengono combattuti da Gesù con il suo sacrificio e la sua resurrezione, per poi vincerli definitivamente. Il rosone segna il centro dello spazio sovrastante la cornice in facciata. Attorno a un grande foro centrale si dirama un motivo decorativo che può leggersi come un colonnato circolare, con dodici colonne che si allargano radialmente verso l’esterno, e culminano all’interno in dodici capitelli che sorreggono una serie di arcate: lo schema differisce parzialmente da quello della lunetta centrale, dove le colonne hanno i capitelli all’estremità esterna, senza accenni di arcate. Negli spazi fra le colonne si aprono dei fori rotondi, più piccoli di quello centrale: potrebbero stare a rappresentare i dodici Apostoli, mentre quello centrale indicherebbe il Cristo. I due buoi che emergono per metà corpo ai fianchi del rosone, e l’aquila (monca della testa) innalzata sulla cima degli spioventi, hanno una resa plastica del tutto diversa da quella dei bassorilievi. È abbastanza chiaro il senso dell’aquila perché segno di vittoria del Cristo, qui rafforzato tramite le creature mostruose, molto danneggiate, prigioniere fra gli artigli del rapace. Invece è meno ovvio il significato delle due protomi bovine, sul quale prova ad argomentare il Gandolfo: la presenza di buoi binati, in rapporto con il rosone che dando luce alla chiesa è un simbolo di manifestazione divina, si riscontra in più chiese romaniche dell’Appennino centrale. I buoi erano celebrati nel medioevo, specie nel mondo contadino (che secondo lo studioso è il principale destinatario del programma figurativo di Santa Maria della Strada), per la loro mansuetudine, la fedeltà e l’operosità. Sarebbero quindi un segno benaugurale. Le difficoltà interpretative riguardanti la chiesa non risparmiano il destinatario del monumento sepolcrale, riferibile al XIV secolo, che si trova all’interno, appoggiato lungo la parete sinistra. Le sembianze del defunto, come rappresentato nel monumento stesso, hanno lasciato in dubbio anche se si trattasse di un giovane uomo o di una donna. La questione sembra essere stata risolta da Jamison, che ha identificato come stemma della famiglia d’Aquino quello scolpito sul manufatto. Nello specifico, il sepolcro sarebbe stato destinato a Berardo d’Aquino, morto nel 1345, che era legato alla famiglia Lupara da una catena di parentele e matrimoni e possedeva feudi nelle vicinanze di Matrice. Tuttavia nell’arca si trovano i resti dei corpi di tre persone diverse, e non ci sono tracce che consentano di identificare le altre due. All’interno della chiesa è da segnalarsi anche l’acquasantiera del XV secolo: sul suo fusto si avvolge a spirale un ramo di vite, e compare lo stemma della famiglia Monforte, con tutta probabilità in riferimento a Cola di Monforte, conte di Campobasso. Jamison suggerisce che la datazione esatta sia il 1463, provando a correggere una lettura erronea sull’acquasantiera stessa, e che il manufatto sia stato donato per contribuire al ripristino dopo il terremoto del 1456. Valente, notando che la base dell’acquasantiera reca delle mezzelune decorate con una conchiglia, le interpreta come un richiamo a un cappello da pellegrino con delle conchiglie di Santiago, e quindi un riferimento al pellegrinaggio compiuto da Cola di Monforte, che però avvenne qualche anno più tardi e in una situazione estremamente turbolenta. Lasciando questo magnifico monumento si scorge un dettaglio scultoreo abbastanza defilato, delineato sopra un blocco lapideo del campanile: la testa di un’enigmatica figura maschile, che certamente resterà qui, senza nome, nei secoli a venire.

ALESSANDRO ROMANO (chi sono)

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